senza titolo #16

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Vivian Maier

I figli, dice. Chi non  li ha avuti non può capire lo sgomento di una madre o un padre davanti al baratro e alla meraviglia della crescita di un piccolo essere umano che dipende da te. La responsabilità, e tante altre cose. Quella fragilità insomma, tutta rappresa, che si stende davanti al cumulo di chi eravamo prima di aver avuto qualcuno a cui dover dare tutto il nostro accudimento. E che è lì, ogni giorno, a ricordarcelo. Ma “noi” chi? “Noi” è forse solo chi è arrivato al mondo senza averlo chiesto, questo è comune, cioè lo è per tutte e tutti. “Noi” è chi, anche avendo avuto il privilegio di essere madre o padre, non dovrebbe parlare anche a nome di altri che hanno fatto la stessa scelta.

Ora capita che su questa vicenda di Lavagna, cioè di questo ragazzino di 16 anni che si è gettato dal balcone in preda allo spavento per la perquisizione della guardia di finanza nella sua camera per qualche grammo di hashish, si accusi la madre come fosse quasi l’emissaria dello stesso gesto visto che è stata proprio lei a chiamare le forze dell’ordine. Continua a leggere

Clara, Mirina e altre storie

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galllini2-300x225Luminosa audace e ardente, così Christa Wolf descrive l’amazzone Mirina, una delle protagoniste del suo romanzo Cassandra. Aveva però negli occhi anche una certa nostalgia. Di quelle acute, osserva Wolf. Così la strana creatura dalla fisionomia chiaroscurale che non credeva nelle predizioni, fedele compagna di Pentesilea, metteva a repentaglio il proprio corpo tutto nella lotta per la verità. Clara Gallini, scomparsa ieri all’età di 85 anni, aveva scelto proprio il nome Mirina per la gatta che da anni le faceva compagnia nella casa romana in via Sant’Antonio all’Esquilino. Una piccola viuzza, riparata dal frastuono del quartiere e tuttavia popolata da una moltitudine di storie. «Il romanzo di Christa Wolf mi era talmente piaciuto, il nome Mirina però l’ho scelto non per ricordarmi del suo carattere indomito ma per la dolcezza del suono». Schiva e pur sempre diretta, Clara Gallini non amava i convenevoli né le noiose formalità, sia dell’ambiente accademico che mondano. E in quel pomeriggio tiepido, si distingueva bene che di Mirina anche lei possedeva qualcosa di profondo. Nella sinuosità della figura, infine nel coraggio irriverente della sopravvivenza a una malattia che l’aveva ultimamente provata nel corpo, lasciandole tuttavia la cosa più importante, una mente dotata di un acume eccezionale. Ne dà prova nel suo ultimo libro, Incidenti di percorso, pubblicato con lungimiranza da Nottetempo quando, nell’incontro con l’allora direttrice Ginevra Bompiani, pensò di scrivere cosa le era accaduto. Ne viene fuori un resoconto che è diario di intensa auscultazione interna e osservazione partecipata di cui però, a differenza degli ambiti di cui si era fin lì occupata, il soggetto era lei stessa. Si era fatta campo di indagine e maestra di invenzione, ancora una volta. Era riuscita a intravvedere nella malattia e nella cura esperienze ineludibili, nel doppio passo della fragilità e della gaurigione.

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Il carro di Tespi

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savina-dolores-massa-il-carro-di-tespi[pubblicato sulle pagine culturali de La Nuova Sardegna il 10 agosto]

Si respira un’aria di sollievo nel compimento di una sorte quando, nonostante le avversità, ha potuto dare seguito al proprio desiderio. Insieme alla piccola catastrofe quotidiana di gesti minuti, molte gioie e altrettanti dolori, che segnano l’inventario di una vita lunga giunta quasi al suo termine. Lo sa bene Savina Dolores Massa che nel suo ultimo romanzo, Il carro di Tespi (Il Maestrale, pp. 313, euro 16) percorre la parabola umana di Antonio Garau, commediografo oristanese scomparso nel 1988 all’età di 81 anni. Una biografia ispirata «liberamente», si specifica nel sottotitolo, rispondente all’ampiezza della scrittura di Massa che sceglie di non seguire la forma del romanzo storico ma eccede fra la fedeltà ad alcune fonti consultate e il memoir, con inserti di finzione e sfasamento di piani linguistici.

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ricordando Tomasino Pinna

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Cattura

il manifesto, 28 giugno 2016

Ho un ricordo personale di Tomasino Pinna perché è con lui che ho sostenuto l’ultimo esame prima di laurearmi. E quando mi ha chiesto con chi avessi intenzione di preparare la tesi mi rammaricai di non averlo incontrato prima. Ricordo bene il suo corso di Storia delle religioni, le sue dispense su Bourdieu, fino al suo appassionato spiegare la disposizione delle caste e infine il suo libro imperdibile in cui ha ricostruito la storia di Julia Carta, una donna che nel 1596 è stata accusata di stregoneria dall’inquisizione. Quel volume ha contribuito alla storia delle tradizioni popolari in Sardegna e non solo. Oltre alla storia della stregoneria, tutta.

Tomasino Pinna se ne è andato in silenzio, come in silenzio e con un sorriso gentile e garbato ha vissuto la sua esistenza. Con una grande finezza di pensiero che spesso, anche se non necessariamente, viene a incontrarsi con una certa dose di umiltà. Non ha strepitato o sbraitato neppure quando, non più tardi del 2012, la prefettura di Sassari negò al comune di Siligo, in cui era vissuta Julia Carta, la dedica di una via. In fondo cosa c’era da intitolarle, così disse la prefettura, era pur sempre una strega, un pessimo esempio e non certo una martire, piuttosto una appartenente a un “giro oscuro”.

Consultato in quel frangente, quando lessi le sue prime dichiarazioni, lo immaginai imbarazzato dinanzi a tanta cialtroneria. Si limitò a ribadire cosa aveva fatto sotto il profilo della ricostruzione storico-scientifica, un lavoro di anni basato su documenti raccolti a Madrid. Insomma, la via poteva esserle intitolata di certo, ma non era questo il punto della vicenda. Era invece, come è anche adesso, raccontare la storia di chi non ha avuto voce per poi constatare amaramente che, una volta compiuta l’impresa, c’è sempre qualche cortocircuito che riporta al punto di partenza.

Di seguito riporto un articolo pubblicato proprio da Pinna sul quotidiano La Nuova Sardegna in merito alla vicenda. Ciao Tomasino, che la terra ti sia lieve.

[a.p.]

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Povera Julia, dopo 400 anni ancora vittima

La “strega” di Siligo testimone di un forte senso comunitario che ispira ancora molte paure e diffidenze

di Tomasino Pinna

Quale autore del libro Storia di una strega (Edes Edizioni, 480 pagine, 20 euro) sul processo celebrato dall’Inquisizione spagnola contro Julia Carta nel 1596-97, non posso – visto il rilievo sugli organi di stampa che ha assunto la questione relativa al diniego opposto dalla Prefettura di Sassari all’intitolazione di una via di Siligo a Julia Carta – sottrarmi all’obbligo di esprimere il mio punto di vista. Non intendevo farlo per più di una ragione, e quella ascrivibile a un certo disinteresse caratteriale alla visibilità pubblica non è la principale.

Premesso che non conosco le motivazioni in base alle quali è stata avanzata la richiesta di intitolazione della via (che però presumo non molto argomentate né particolarmente convincenti, dati la perentorietà e il tenore del giudizio negativo espresso dalla Deputazione di Storia Patria, che una qualche ragione deve pure averla), e non mi sento dunque difensore d’ufficio né paladino d’alcunché, devo tuttavia avanzare delle riserve sui giudizi che sembrerebbe (in base a quanto scritto nell’articolo pubblicato sulla Nuova del 16 maggio) abbia espresso la Deputazione determinando, quale organo competente, la decisione della Prefettura (sulla cui correttezza istituzionale non ho nulla da dire). Per la Deputazione, Julia Carta non meriterebbe l’intitolazione della via perché sarebbe una «truffatrice» che «ancora oggi potrebbe rappresentare un cattivo esempio», «rappresenta un giro oscuro» e «non è sembrato un personaggio che avesse un valore morale».

Se queste sono davvero le motivazioni addotte, ritengo necessarie alcune osservazioni.

Julia Carta non era una truffatrice, ma depositaria di un sistema di saperi tradizionali nel campo delle terapie e della protezione magica da avversità di varia natura. Saperi che, tramandati nel corso delle generazioni, le erano stati trasmessi dalla nonna materna e da un’altra vecchia. Si trattava di sistemi di tutela delle comunità nei momenti critici (sull’argomento in generale ha scritto opere fondamentali Ernesto de Martino, al quale rinvio). Julia era dunque anello di una lunga catena di trasmissione culturale, e le sue competenze erano funzionali ai bisogni del contesto sociale. Serviva, non truffava la sua comunità: «Si tú no llamas a Julia Carta nunca sarás sano», dicevano a un ammalato di Siligo, evidenziando il ruolo di Julia come punto di riferimento nei momenti di difficoltà. Qui sta il suo «valore morale», la sua valenza positiva. E se proprio si volesse fare della sua vicenda, con enfasi gnomica che poco mi attrae, un modello per l’oggi, non sarebbe certo quello legato al «cattivo esempio», ma piuttosto quello che richiama la solidarietà comunitaria.

Nella magia, poi, e anche in quella di Julia, non c’è nessun «giro oscuro» né tenebroso mistero, per chi ne sappia leggere i codici mitico-rituali (ancora de Martino docet).

A coronamento, si aggiunge anche, fra le ragioni dell’indegnità, il fatto che Julia Carta «non è una martire». Giustificazione curiosa, che meriterebbe un’ampia parentesi. Mi limito a dire soltanto che, al contrario, Julia è proprio martire, e lo è nel senso etimologico del termine: «testimone». Testimone di aspetti importanti della cultura popolare sarda (l’orizzonte mitico-rituale che funge da dispositivo solutorio di emergenze critiche e il ruolo di protezione che la donna vi ha esercitato), e non solo del XVI secolo; testimone del tributo di sofferenza che la diversità del mondo magico popolare (Julia rappresenta centinaia di donne come lei condannate per le stesse ragioni) ha pagato all’intolleranza ideologico-religiosa espressa dalla Controriforma nel suo braccio repressivo dell’Inquisizione; testimonianza isolana di quel drammatico fenomeno che ha colpito l’Europa moderna e noto come «caccia alle streghe»; testimonianza emblematica ed esempio locale della violenza del potere su chi potere non ha: classi subalterne, donne ridotte al rango di streghe alleate del demonio (quando si dice «demonizzazione»! qui, della donna e della cultura popolare).

Giudicare Julia con i criteri usati dalla Deputazione significa restare oggi subalterni alle categorie – come se il tempo non fosse trascorso e «magicamente» si fosse fermato al 1597 – dell’Inquisizione che l’ha condannata.

Tuttavia, non drammatizziamo né demonizziamo: tra una richiesta forse mal fatta e una negazione certamente affrettata, mi pare di poter concludere che si è di fronte alla classica tempesta nel bicchier d’acqua.

La voracità del voto

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Blu (Jesi)

Fedele all’ingordigia, al cattivo gusto e alla mancanza di misura. Fedele alla tracotanza, alla superbia telepolitica e alla supponenza. Se c’è una cosa che l’ordine dei francescani dovrebbe avere interiorizzato è proprio l’osservanza dell’opposto di tutto ciò. Chi ne fa parte, di quell’ordine, e che giurava fino a poco tempo fa di voler fare solo ritorno alle mansioni che esso prevede, non può certo perseguire la scelta di accettare un posto da assessore. Soprattutto se viene proposto nella città dove si è stati appena prosciolti dall’accusa di violenza sessuale e privata – con una sentenza resa nota di recente – ai danni di una donna, una suora. Tania. Fino a pochi mesi fa Fedele Bisceglia, francescano al centro di queste accuse pesantissime, aveva una condanna a 9 anni e rotti. Lo scandalo di violenza sessuale che lo aveva travolto, soprattutto perché dettagliato da intercettazioni che dipingevano una condotta piuttosto discussa, oltre ad aver scatenato le ire di quante si erano da subito e giustamente affiancate in solidarietà a suor Tania, avevano restituito l’immagine di un uomo piuttosto imbarazzante. Continua a leggere

nature morte

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Still Life 5La morte che si può raccontare è sempre quella di altri. L’esperienza della propria scomparsa definitiva è infatti incomunicabile. Fare narrazione della morte diventa allora qualcosa a cui si assiste. Indifesi o più o meno preparati, si tratta sempre di un fuori da noi inevitabile. È tuttavia attraverso la morte dell’altro che viene fatta esperienza di alcuni sentimenti, alcune situazioni-limite che consentono di elaborare il lutto – quello presente o quello futuro che ci riguarderà. In questo sfondo gravita un film che ho visto recentemente e che si intitola Still Life, scritto e diretto da Uberto Pasolini. Il protagonista è un impiegato comunale che si occupa di rintracciare i famigliari e gli amici di chi scompare e, nel caso di assenza dei primi e dei secondi, si incarica – attraverso il municipio inglese di appartenenza – delle esequie. John May è un uomo ordinario, grigio e silenzioso, ha 44 anni ma ne dimostra molti di più. Ha occhi chiari e un volto sempre al limite del sorriso. Se l’espressione “still life” significa genericamente “natura morta”, molte sono le pose fotografiche della morte che John May apparecchia ogni giorno. Dai faldoni accuratamente archiviati che riportano in breve la vita di chi muore in solitudine, al pasto in scatola che consuma nella propria casa. Un allineamento maniacale che gli consente di fare arretrare l’angoscia scomposta e l’incomprensibilità di vite a perdere. Il rito è sempre il medesimo, senza scandalo: va nelle case di chi muore, prende con sé fotografie, oggetti piccoli e all’apparenza trascurabili. Cerca di rintracciare chi è stato in relazione con l’estinto e, se la risposta è negativa, si occupa del funerale. In alcuni casi immagina la vita di chi è morto, si rappresenta cioè la morte di un altro come fosse un proprio caro. Come fosse un amico. Senza giudizio. Fa cioè interferire in un lavoro puramente meccanico e impiegatizio un’etica della responsabilità insieme a una sorta di strana spiritualità del gesto. Continua a leggere

senza titolo #15

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Sebastião Salgado

Sebastião Salgado

Ho letto anch’io la storia di Abou, il bambino di otto anni che rinchiuso in un trolley veniva trasportato dal suo paese d’origine fino all’Europa per raggiungere il proprio padre. L’ho letta e l’ho trovata una notizia tremenda. Agghiacciante. Tuttavia qui mi vorrei soffermare su alcune similitudini che ho letto in giro e ascoltato poco fa in tv. Mi piacerebbe dirlo con forza: avvicinare un trolley a un utero mi infastidisce e non poco. Anzi diciamo pure che lo trovo inaccettabile. Seppure poetico e sicuramente mosso dalle migliori intenzioni davanti a tanta impotenza, è un accostamento fuori luogo. Intanto se il riferimento è alla posizione “fetale” di Abou c’è da dire che è l’unica possibile quando un corpo è costretto in uno spazio piccolo, angusto e rigido; e se proprio volessimo essere precisi quella di Abou era una posizione di rannicchiamento immobile, di terrore di cui non si può immaginare nient’altro. Nell’utero ci si muove, in una valigia no, non lo si può fare. Sembra una banalità ma non si è liberi in una valigia trasportata per fame da un paese a un altro. Nessuna ulteriore nascita desiderata, nessun messianico bagliore da interpellare, solo il tentativo di scampare a sfruttamento e miseria che nulla hanno a che vedere con gravidanze o ecografie. E non perché l’utero sia dotato di sacralità, semplicemente perché non c’è un unico disincarnato e originario utero del mondo simile a un qualche atavico e indistinto apeiron che ogni tanto fa spuntare bambini e bambine per ricordarci che c’è una speranza e che siamo tutti innocenti. Continua a leggere

senza titolo #14

NIGERIA NEL SANGUE VERSO IL VOTO, SFOLLATI MUOIONO DI FAME

“kamikaze forse a sua insaputa o non volontaria”

tradotto significa che per qualche giornale italiano sembra legittimo il sospetto su una bambina di dieci anni che fa la kamikaze “volontariamente” e “consapevolmente”?

Aggiungo una bambina senza nome, che non ha incarnato nessun grande valore europeo e che per questo non è nessuno di “noi”. Né di “loro”. Non c’è immedesimazione possibile. Cadrà molto banalmente nel dimenticatoio dei tanti «indegni di lutto» che non arrivano alla semplice presenza terrestre, nonostante siano esistiti anche loro. Di questa bambina non ci sono foto, non ci sono fiori, è stata buttata lì dove è nata e poi – riempita di esplosivo – lasciata entrare in un mercato nigeriano. Così. Della sua vita, di quella vulnerabilità inservibile che non interessa a nessuno e che manda in corto-circuito qualunque analisi geo-politica, è stato fatto scempio, insieme alla vita di altre diciannove persone che erano presenti in quel mercato. In una rapina costante e indigeribile della vulnerabilità, in un mondo che sembra una caricatura grottesca di qualche episodio di Black Mirror, paradossalmente si implode in una disumanità senza limiti. Così come senza limiti è l’empatia guadagnata nel carezzare la “nostra”, molto italiana ed europea, idea di identità. Bisogna difenderla come il bene più bello – ha detto recentemente qualcuno commentando i fatti di Parigi. Continua a leggere

senza titolo #13

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imagesHa preso avvio lo sport preferito di un sacco di gente, quella roba vomitevole di investigare l’infelicità e lo sprofondo altrui e di metterci bocca. Sempre e comunque. Anche perché sulla propria di infelicità, sull’orlo che spinge quasi nel precipizio e dal quale ci si salva spesso un po’ per caso meglio sorvolare. Spesso non ci sono parole adeguate neppure immedesimandosi autenticamente, figuriamoci poi fingendo di poterlo fare. Ma chissenefrega, lo si fa uguale. Si sezionerà ogni cosa anche questa volta, e lo si sta già facendo. Con spocchia perbenista, con morbosità mortuaria e con altrettanta sicumera psichiatrica su chi ha fatto cosa quando come e da quanto lo meditava. Quell’infelicità la si analizzerà inutilmente immaginando di saper vedere negli abissi altrui attraverso l’incompetenza di esperti che andranno a ingrassare le fila di molti talk-show, testate apposite cartacee e on-line. Ne sentiremo parlare per mesi e forse per anni del passato ingombrante di una venticinquenne, delle sue dubbie relazioni, di lei madre da ragazzina, dei due tentativi di suicidio en passant, ancora di quando si è spostata in lungo e in largo per lavoro o per chissà che cosa, si darà voce alla sorella che con grandi occhiali scuri interviene nei vari tg per dire che l’abietta non la frequentava da un anno, ma anche alla madre e alla nonna. Al padre ambiguo che non si sa se sia naturale o adottivo e che nonostante l’abbandono la ama non si sa bene come. E poi agli immancabili vicini di casa che “sembrava proprio una bella famiglia”. Tutto questo su un’ipotesi di colpevolezza, sia chiaro. Continua a leggere