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Vivian Maier

I figli, dice. Chi non  li ha avuti non può capire lo sgomento di una madre o un padre davanti al baratro e alla meraviglia della crescita di un piccolo essere umano che dipende da te. La responsabilità, e tante altre cose. Quella fragilità insomma, tutta rappresa, che si stende davanti al cumulo di chi eravamo prima di aver avuto qualcuno a cui dover dare tutto il nostro accudimento. E che è lì, ogni giorno, a ricordarcelo. Ma “noi” chi? “Noi” è forse solo chi è arrivato al mondo senza averlo chiesto, questo è comune, cioè lo è per tutte e tutti. “Noi” è chi, anche avendo avuto il privilegio di essere madre o padre, non dovrebbe parlare anche a nome di altri che hanno fatto la stessa scelta.

Ora capita che su questa vicenda di Lavagna, cioè di questo ragazzino di 16 anni che si è gettato dal balcone in preda allo spavento per la perquisizione della guardia di finanza nella sua camera per qualche grammo di hashish, si accusi la madre come fosse quasi l’emissaria dello stesso gesto visto che è stata proprio lei a chiamare le forze dell’ordine. Ma soprattutto la si accusa per le parole pronunciate durante il funerale del proprio figlio, per aver espresso una serie di principi morali a cui l’umana adolescenza dovrebbe attenersi per salvarsi. Parla di emergenza educativa. Parla di tante cose, tutte dell’esterno di sé. Come se quello che è accaduto potesse essere condiviso solo con altri e altre, quelli e quelle che la stanno guardando, ascoltando e che pendono dalle sue labbra. Perché davanti al dolore non augurabile si resta paralizzati. E dunque si ascolta, generalmente. Fa spavento quella madre, non la si può sentire fino in fondo senza un senso di inquietudine. Ma non per quello che dice, per come lo dice, sembra essere troppo il disamore e lo scollamento del suo interno, del suo dentro che dovrebbe farle preservare e custodire la perdita, per lo strappo di chi ha deciso un giorno di fare arrivare al mondo. E se è vero che è la madre adottiva non cambia niente, anzi casomai segna la scelta deliberata di aver desiderato fortemente la cura di questo ragazzino, dopo che un’altra donna lo aveva comunque portato alla nascita.

Fa spavento ciò che è spaventevole, che ci conduce nei recessi della nostra indesiderabilità, del nostro disamore di cui spesso siamo stati e state edotti da chi avrebbe invece insegnarci un’altra grammatica della gioia. Fa spavento costatare che la famiglia è a volte una cova di malanni immedicabili che ci espongono a un presente già sbrindellati, già a pezzi. E che quella rottura ce la teniamo stretta, rimandando e decidendo che ancora non è arrivato il momento di dire basta. È una decisione, un patto che si rinnova ogni giorno, continuare a contrattare e curare la sofferenza in cui si cresce. A volte. Anche separandosi, anche in solitudine, chissà.

Se ciascuna e ciascuno ha esperienza di quel disamore che risputa il contrario dell’affetto, ebbene non per questo però si può fare un teorema di tutto quel che capita. Per due ragioni. La prima è che non c’è un senso psico-magico di cui è dotato e dotata chi si riproduce o decide di allevare bambini e bambine. La seconda è che anche se la parte fenomenica di ciò che è accaduto a Lavagna, quel giorno e i giorni a seguire, è nota non ci si può arrogare un giudizio sulla vicenda. Compreso quello su una madre. Di cui in fondo non si sa niente tranne ciò che è emerso. Miseria simbolica o no. Esiste invece una zona di mezzo, una interdizione che potrebbe essere praticata allorché si spostasse il fuoco da chi rimane, e meriterebbe per moltissimi il tribunale della nostra spietata coscienza (perlopiù sporchina), a chi ha deciso di andarsene. È quel ragazzino di 16 anni e il vuoto vero in cui si è gettato a suggerire una tregua? Una tregua dall’ossessione spiegatizia a tutti i costi, forse. Una tregua dalla diagnosi spicciola. Una tregua per ascoltare finalmente tutto il disamore che ci è stato inflitto e che dunque abita anche noi, fin da quando ha abitato le nostre vite. Giovani e acerbe come la sua. Nell’esperimento di sé e nella mancanza di comprensione. Nel rifiuto e nell’espulsione, di un “sorvegliare e punire” che a volte produce molte più anomalie di quelle che immaginiamo e sopportiamo. Una tregua che è una pausa di parole. Comprese queste.

Con tutto il dispiacere, quasi inservibile, per un ragazzino di 16 anni di cui continuiamo a non sapere quasi niente e a cui però vanno tutti i miei pensieri, per la sua enorme, breve e insopportabile parabola. Per non aver avuto il tempo di decidere e ricontrattare cosa fare di sé, e di quel disamore. Forse niente o magari avrebbe trovato un mondo a sua misura, per costruire qualcosa accanto alle macerie. Invece non è andata così. E questo duole, è lui che duole.

[a.p.]