La morte che si può raccontare è sempre quella di altri. L’esperienza della propria scomparsa definitiva è infatti incomunicabile. Fare narrazione della morte diventa allora qualcosa a cui si assiste. Indifesi o più o meno preparati, si tratta sempre di un fuori da noi inevitabile. È tuttavia attraverso la morte dell’altro che viene fatta esperienza di alcuni sentimenti, alcune situazioni-limite che consentono di elaborare il lutto – quello presente o quello futuro che ci riguarderà. In questo sfondo gravita un film che ho visto recentemente e che si intitola Still Life, scritto e diretto da Uberto Pasolini. Il protagonista è un impiegato comunale che si occupa di rintracciare i famigliari e gli amici di chi scompare e, nel caso di assenza dei primi e dei secondi, si incarica – attraverso il municipio inglese di appartenenza – delle esequie. John May è un uomo ordinario, grigio e silenzioso, ha 44 anni ma ne dimostra molti di più. Ha occhi chiari e un volto sempre al limite del sorriso. Se l’espressione “still life” significa genericamente “natura morta”, molte sono le pose fotografiche della morte che John May apparecchia ogni giorno. Dai faldoni accuratamente archiviati che riportano in breve la vita di chi muore in solitudine, al pasto in scatola che consuma nella propria casa. Un allineamento maniacale che gli consente di fare arretrare l’angoscia scomposta e l’incomprensibilità di vite a perdere. Il rito è sempre il medesimo, senza scandalo: va nelle case di chi muore, prende con sé fotografie, oggetti piccoli e all’apparenza trascurabili. Cerca di rintracciare chi è stato in relazione con l’estinto e, se la risposta è negativa, si occupa del funerale. In alcuni casi immagina la vita di chi è morto, si rappresenta cioè la morte di un altro come fosse un proprio caro. Come fosse un amico. Senza giudizio. Fa cioè interferire in un lavoro puramente meccanico e impiegatizio un’etica della responsabilità insieme a una sorta di strana spiritualità del gesto. Continua a leggere
nature morte
29 martedì Dic 2015
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