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Michela Murgia - Ave Mary

È necessario anche, se non vogliamo essere complici dell’uccisione della madre, che affermiamo che esiste una genealogia di donne. C’è una genealogia di donne nella nostra famiglia: abbiamo una madre, una nonna, una bisnonna materne e delle figlie. Di questa genealogia di donne, dato il nostro esilio nella famiglia del padre-marito, tendiamo a dimenticarne la singolarità e perfino a rinnegarla. Cerchiamo di situarci in questa genealogia femminile per conquistare e custodire la nostra identità. Non dimentichiamo nemmeno che abbiamo già una storia, che certe donne, anche se era culturalmente difficile, hanno segnato la storia, e che troppo spesso noi non ne abbiamo conoscenza. (Luce Irigaray, Il corpo a corpo con la madre – 31 maggio 1980)

Nel solco della genealogia femminile si apre Ave Mary, il nuovo libro di Michela Murgia. L’intenzione della scrittura pare essere netta e precisa. Cosi come il fatto di trovarsi dinanzi ad un testo accessibile quanto importante.
È un libro di esperienza, non di sentenza – così avverte Murgia nelle prime pagine.
Quel che restituisce la lettura è un ordito raffinato che proprio in virtù della condivisione, diventa ancora più prezioso. Da subito entriamo in relazione con ricordi di infanzia e avvenimenti personali chiariti con intelligenza e ironia e che servono a chi legge per sentirsi da subito come a casa. Ecco, vedete, questa sono io. Sembra quasi di sentirla soprattutto quando si segue quella bambina che imita con fiducia la propria cugina santa o quando – felice e sollevata – scopre che Dio è donna.
Il saggio, snello ed efficace, racconta di come Maria, la ragazza di Nazareth, liberata dalla cultura patriarcale che la costringe in ciò che non è, possa essere soggetto di una rappresentazione differente; la liberazione è un’operazione complessa – e necessaria – di disseppellimento che Murgia conduce con grazia e sapienza toccando nodi teologici della massima importanza. Si tratta in effetti di grovigli trasformati in dogma che hanno consentito al sistema patriarcale di trovare una letale alleanza nella tradizione cattolica. Ma attenzione: non nella tradizione in linea approssimativa, bensì in ciò che è stato appositamente nascosto e mal tradotto per diventare un sistema di dominio, costellato tutto di condizionamenti ai danni delle donne.
Ecco un esempio emblematico:
Alle donne è stato proposto di saldare il proprio debito assumendosi la responsabilità sulla vita e la morte degli altri, curandosene come vestali. Se la donna è esclusa dalla possibilità di essere soggetto spirituale nella morte, è infatti sempre protagonista del suo contesto. Al capezzale, sulla tomba e sulla pira non solo c’era sempre posto per la donna, ma in un certo senso quello è proprio il suo posto, la condizione indispensabile per la glorificazione della morte maschile (…) L’atto dell’assistere, nel suo doppio significato di prendersi cura e di essere testimone di un evento, diventa per la donna l’unico modo legittimo di continuare a esistere in modo degno. (pp. 48- 49)

Digressione
Al di là della definizione heideggeriana della cura, di cui potremmo cominciare a disfarci in questa sede come in altre, esiste in effetti una degenerazione del suo significato specifico. La cultura patriarcale infatti si serve della tradizione come di un dispositivo di controllo fornito di accezioni che non corrispondono a ciò che è. La tradizione nel sistema patriarcale serve dunque a pervertire il significato per fondare consuetudini che si scambiano maldestramente per pratiche. I significati, in tal senso, sono pietre che suggellano la morte della parola al(a)ta. Facendo uno spostamento e tornando alle cose stesse, alle parole nel loro significato autentico, ci accorgeremmo che la cura, scritta minuscola e per questo ancora più preziosa, bisbiglia l’intelligenza del cuore; la cura è delle donne e per le donne qualcosa che non rappresenta la passività di una femminilità di servizio ma racconta l’arcipelago di cui ci siamo riappropriate. Per farlo non si può naturalmente guardare dallo stesso luogo della cultura maschile, non solo lo sguardo ma anche il linguaggio devono mutare per dire di noi – partendo da noi. Aderendo all’ambiguità della cura risulta fin tropo evidente che si cadrebbe nel tranello di chi ci vorrebbe ancora incastrate in un desiderio involutivo di emancipazione; legate a atteggiamenti tesi a destituire l’ordine del linguaggio di tutta la sua potenza sorgiva. Nella cura risuona invece il cuore come qualcosa che scalda e consuma; la cura dunque non è la strada della preoccupazione e della dipendenza ma, nel significato che le è proprio, della conoscenza e dell’attenzione per la relazione; l’elemento transitivo qui muove da una modalità riflessiva ovvero dalla cura di sé, prima di tutto; la relazione viene anzitutto attraversata dal partire da sé e non risente di una emotività disordinata. La lingua materna ci insegna, per esempio, la cura nel balbettamento delle prime sillabe, nella irripetibile esperienza dell’essere insieme prima del taglio. Che questo modo di stare al mondo sia poi servito alla cultura patriarcale per affibbiare alle donne un ruolo subalterno è una faccenda che sopraggiunge dopo. Dopo il taglio appunto e il disconoscimento. Dopo il taglio e la manipolazione. E avendo fatto una scelta contraria all’ordine simbolico della madre, odiandola quella madre e occultandola come una cosa tra le cose. Che dunque dalla cura ci si senta sacrificate risulta essere un malinteso culturale dal quale sarà bene finalmente sottrarsi. La cura di sé appartiene alla donna non come obbligo imposto ma come capacità di custodire e preservare la parola e la propria differenza. Nel solco di questa differenza infatti ci si può prendere cura di se stesse e si possono curare le relazioni. Il pensiero delle donne, in più di un’occasione, ha messo a frutto la riappropriazione del significato primario:
Se le donne dedicano una parte più o meno considerevole della loro esistenza alla cura lo fanno perché ne sanno l’essenzialità. Il problema sta piuttosto nella mancanza di simbolico. È il simbolico che dà dignità al lavoro di cura, che dà misura, quella misura che manca quando il fare resta muto e non riconosciuto. (Luigina Mortari – L’esperienza della cura – 2008)

La sovversiva
Uno dei passaggi più intensi dell’intero saggio di Michela Murgia è certamente quello relativo all’annunciazione; sta lì ciò che deve essere scardinato e decifrato, una volta per tutte.
Maria di Nazareth è la persona che ha subito il torto più grande nel dipanarsi di questa colossale struttura di dominio. È stata strumentalmente trasformata in icona della più passiva docilità, in muta testimonial del silenzio-assenso, e ha finito in modo paradossale per essere proposta come esempio luminoso di donna funzionale ai piani altrui, lei che i piani altrui li aveva sovvertiti tutti senza pensarci su neanche un istante. Il sì di Maria all’annunciazione andrebbe studiato in tutte le circostanze in cui si ragiona di donne, perché è quanto di più distante dall’ordine patriarcale si possa sperare di vedere. (p. 115)
Proseguendo su questo crinale, risulta essenziale che dopo la decostruzione si assuma la signoria sui propri atti. Proprio come ha fatto Maria, che in quel sì originario diventa parte di una narrazione che riguarda tutte noi. Quel sì che apparentemente risponde ad un ordine stabilito genera invece uno spostamento, una torsione storica; diventa un gesto simbolico di straordinaria potenza: la ragazza di Nazareth diventa signora del suo stesso destino, prende la parola per sé e solo dopo accoglie l’altro; la sua maternità non è determinata dalla notizia della futura gravidanza ma da quella straordinaria capacità di riconoscersi donna e dunque madre – e non in funzione di generare figli, tutt’altro; semmai di poter mettere al mondo se stessa risuonando nel sì la sua stessa parola. Insiste Murgia spiegando come nell’esplorazione di ciò che è stato taciuto va trovato un senso e, prima di ogni altra cosa, distinto un atto spirituale e politico:
spesso finiamo per definirci (e vederci definite) a immagine e somiglianza del Dio che ci è stato cucito addosso (p. 123)

L’incontro
L’Angelo è l’apparizione del Padre (e dello Spirito)? Che viene a visitare e ad annunciare la fecondità della vergine. Ma il Padre non è solo. È tre. La vergine è sola, del suo genere. Senza figlia né amore tra loro, senza divenire divina se non tramite il figlio: Dio-uomo, senza sposo divino (Luce Irigaray, Donne divine,8 giugno 1984 p.75)

Giusy Calia - Angelus

C’è una foto di Giusy Calia che si intitola Angelus. È una trinità che racconta la Terzità, la relazione e la mediazione che conosce il due assurto al divino. Non si allontana dallo sguardo che resta esatto e laterale. Non ha la bocca aperta, non serve che gli occhi siano spalancati perché l’Angelus soffia il suo stesso respiro e fonda la parola al(a)ta di sbieco. Forse lo accoglie e, all’altezza del petto, lo restituisce alla relazione. L’angelo della storia è presente alle sue stesse rovine e riconosce nell’unica catastrofe la mancata relazione. Non vuole trattenersi dalla catena degli eventi e non vuole neppure destare i morti e ricomporre l’infranto. Lo ha già fatto. La tempesta è passata e le sue ali sono libere di spiegarsi. Il futuro in cui è sospinto non si nutre del progresso perché la tempesta è un orizzonte di cui si sono osservati i confini. Non c’è un aldilà che non sia in mano nostra, l’angelo della storia per Giusy Calia è donna, è differenza. E ci racconta di una nuova annunciazione di cui si vedono le vestigia. Non c’è silenzio ma fragore del tempo che spalanca le ali così come l’assenza. C’è attesa di qualcuno che deve arrivare. Sarà nuovamente Maria, sarà chi è grata alla trasfigurazione del proprio respiro.

Il respiro di Maria

Luce Irigaray - Il mistero di Maria

Il silenzio di Maria è spesso interpretato in modo negativo, in particolare dalle donne. Un simile giudizio è determinato da valori occidentali in prevalenza maschili. Il silenzio di Maria può essere inteso in un altro modo. Può significare un mezzo di preservare l’intimità con sé, l’auto-affezione, per non perdersi, segnatamente in un discorso che non è il proprio (…) Giungere le labbra – come giungere le mani, ma anche le palpebre – è una via di adunare le due parti di sé per raccogliersi, e dimorare e tornare in sé. (Luce Irigaray, Il mistero di Maria – 2010)

All’altezza del petto, sul cuore,  ha inizio la relazione di Maria con l’angelo dell’annunciazione. Preservando il petto si  prende cura del proprio  respiro. In tal senso, una delle suggestioni più belle e commoventi su Maria è il recente libretto di Irigaray. Un tema che ha sviscerato per anni con coraggio e maestria ma che oggi assume il carattere di un canto maturo, imprescindibile. Il silenzio diventa un’occasione superba di raccoglimento, di auto-affezione appunto, che fa combaciare la scissione tipicamente occidentale del già detto. Non è nella bulimia del dire infatti che si riscontra il senso dell’essere presenti a se stesse e alla storia. Il sì di Maria è, come si è ricordato a proposito di Murgia, un prendere parola per sovvertire il già dato e il già detto. Esattamente nell’incontro con l’angelo la narrazione va ripensata. All’altezza del cuore, del petto. Di quelle rovine che non stanno ai piedi ma in cui si è immerse fin dalla nascita per ricordarci il taglio – e per dirci che un ordine simbolico differente esiste e lo si può scegliere, al di qua della storia. Il respiro è lo stesso che guida al divino, è quella parola che, pronunciata dalla ragazza di Nazareth, diventa adesione alla verità. Grazie allo sguardo dell’angelo, che vorremmo figurarci prossimo alla visione di Giusy Calia, Maria può spiritualizzare quel soffio, respiro che divide la narrazione e che mette al mondo l’altro, senza perdere se stessa. Quel respiro che ha a che vedere con la portata del sì di Maria perché lo fonda qualitativamente, era nel petto della stessa bambina alla quale ci siamo affezionate all’inizio di queste riflessioni: una concentrazione massima di stare nell’invisibile che è data intatta solo a chi sa riconoscere la voce femminile di Dio.

[Alessandra Pigliaru]

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NOTE:
Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna, è stato appena pubblicato da Michela Murgia per Einaudi.
L’esperienza della cura è un breve saggio di Luigina Mortari che sta in Il pensiero dell’esperienza, a cura di Annarosa Buttarelli e Federica Giardini, Baldini Castoldi Dalai 2008.
La foto di Giusy Calia dal titolo Angelus è presente in questo blog per gentile concessione dell’artista che ringrazio molto. L’opera, ospitata alla Biennale sarda, è visibile negli spazi del museo Masedu a Sassari fino al 27 novembre. Per chi non l’avesse capito, lo scritto intorno all’immagine è una risposta a Benjamin sull’angelus novus di Klee.
I saggi di Luce Irigaray Il corpo a corpo con la madre e Donne divine sono ora pubblicati, insieme a molti altri preziosissimi, nel volume Sessi e genealogie, tradotto da Luisa Muraro e edito per Baldini Castoldi Dalai nel 2007.
Il mistero di Maria è invece pubblicato per le edizioni paoline nel 2010.