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Gli occhi di Blimunda

~ visioni critiche in frammenti

Gli occhi di Blimunda

Archivi tag: L’aspetto orale della poesia

Ida Travi, Il mio nome è Inna. Scene dal casolare rosso

08 sabato Set 2012

Posted by gliocchidiblimunda in Della scrittura, Inediti, Letture, Libri, Pensiero, Poesia, sogni&sintomi, Visioni critiche

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Tag

Alessandra Pigliaru, Diotima e la suonatrice di flauto, Ida Travi, Il mio nome è Inna, L'aspetto orale della poesia, Moretti&Vitali, oralità e scritture, Tà poesia dello spiraglio e della neve

Ida Travi, Il mio nome è Inna. Scene dal casolare rosso, Moretti&Vitali, settembre 2012

nota di Alessandra Pigliaru

collana: Forme dell’Immaginario poesia
pagine:192
Euro: 15,00

IL MIO NOME E’ INNA: la poetica di Ida Travi segna una specie di rinascita, nella contemporaneità, di una forma di  poesia con personaggi. Zet, Nikka, Sasa e la stessa Inna vivono in un casolare rosso, tra porte che sbattono e campi innevati, parlano una lingua ridotta all’osso…Sono esseri umani qui chiamati Tolki, i parlanti. Sacri e miserabili, misteriosi e semplici. Dietro di loro si intravede la terra di Zard…ma cos’è questa terra di Zard?…

UNA PICCOLA MITOLOGIA CONTEMPORANEA. “Il libro è formato da poesie brevi, frammenti…Ci sono personaggi, figure, come nelle raccolte precedenti… Sì, negli anni, attraverso queste figure, mi sono costruita una personale mitologia contemporanea… Sono pagine scritte… ma poi, nella lettura ad alta voce, monto questi frammenti in un certo ordine, come se li stessi ogni volta sistemando per un nuovo sogno. Si tratta di poesia in movimento, destinata tanto alla pagina quanto alla dimensione orale.”  (dalla presentazionedi Ida Travi)
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Parola – corpo – voce. Appunti tra oralità e scrittura

01 mercoledì Feb 2012

Posted by gliocchidiblimunda in Della scrittura, Inediti, Letture, Pensiero, Poesia, Saggi, Topologie, Visioni critiche

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Tag

Alessandra Pigliaru, Ida Travi, L'aspetto orale della poesia, lingua materna, oralità, Poesia 2punto0, scrittura, un tale una tale

[grazie a Ida Travi per l’ospitalità nella sua rubrica e a Poesia 2.0]

Michal Rovner

[di Alessandra Pigliaru]

La parola che soffia

Oralità e scrittura sono sorelle tra loro e figlie di un’unica lingua, quella materna. Unica perché originaria seppure mai detta una volta per tutte e – anche se – matrice del due. Mai simile e assimilabile in dispositivi sperimentabili e ripetibili, la lingua materna rappresenta la parola incarnata. Oralità come voce, suono primario, gesto inservibile che fa arretrare la morte incalzante del logos: vertice neutro che propone separazione e sparizione. Scrittura come segno e corpo che racconta il suono, ne prende le vesti, proprio come accade tra sorelle quando la più piccola afferra in prestito l’abito della più grande. C’è un corredo familiare fittissimo che si dipana attraverso la lingua della madre, un orizzonte che è una vertigine entro la quale la ripetizione non ha udienza; e non perché la parola debba essere detta una volta per tutte ma proprio per il carattere della trasformazione in divenire di ogni parola. Dalla voce alla scrittura con un gesto, anzi un conato. Quel gesto si fa nutrimento – e nocumento – inscritto in ogni essere che viene tratto al mondo, non più gettato dunque come cosa tra le cose ma tratto e attratto come agire autentico che riconosca una soggettività libera e priva di autorizzazione al dire. Una soggettività che si affida, piuttosto. Essere-tratti alla dimenticanza ma anche attratti al proprio vero sé che è un due, epifania che apre al terzo. La voce e la scrittura discutono della lingua, del tramandare e del trapasso ma soprattutto ci riferiscono una narrazione differente: quella del respiro, la cifra comune infatti è proprio il respiro inteso anch’esso nel suo doppio volto di inspirazione e soffio. Il primo e l’ultimo, insieme ad uno spirare intermedio che avverte dell’accadere. È precisamente all’altezza di quell’accadere in presenza che ha luogo la poesia. Il varco tracciato dalla parola poetica ci tiene saldi e ci strattona in regioni di desiderio che non avevamo inteso da tempo. Da un tempo antico, dal grembo di una promessa tradita. È sempre nel respiro che la frattura tra oralità e scrittura si fa più evidente. Nella voce infatti il ritmo viene spiegato dal respiro. C’è una numerologia precisa, una mantica del corpo-in-voce che ha restituito – e restituisce – una parola poetica forte, liberata e soprattutto incarnata – non più neutra. Una scansione del dire che prescrive un ordine originario che è quello della lingua materna, un ordine capace di farsi corpo-che-canta. In effetti, a ben guardare, nell’apertura al mondo nessuno di noi ha potuto prevedere la mancanza di ripetizione, non ne siamo colpevoli. È invece nell’apprendistato, in quell’ora debole, che si trasforma il respiro in un’altra trama, una genealogia di risacche e di corpi sottratti al tacere. Se, come ricorda Ida Travi ne L’aspetto orale della poesia, nel passaggio tra oralità e scrittura si traghetta necessariamente un trauma, aggiungerei che è proprio nell’ambivalenza del respiro e nella piega che esso assume – taglio tra voce e parola – che riconosciamo un dettato inaudito e inesplicabile altrimenti. Una confessione di qualcosa che frange ma che attraversa, come un affidamento. È il respiro a condurci in regioni di desiderio in cui si puntellano presenza e mancanza. Il rintocco del dire come il conto delle dita. Il rintocco del verso come quello della parola.

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