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Finalmente posso presentarvi ufficialmente la mia prima bambina di carta. Si tratta di una ricerca sulla storia delle idee di vendetta e onore che porto avanti da qualche tempo. La monografia si intitola “Il sangue privato. Vendetta e onore in Scipione Maffei Pietro Verri e Cesare Beccaria”. Ringrazio la mia cara amica Giusy Calia che mi ha generosamente fornito una sua bellissima immagine per la copertina. Grazie di cuore a Sebastiano Ghisu per la prefazione e a Paolo Carta per la postfazione. Un sentito ringraziamento va a Diego Fusaro per aver sostenuto il progetto fin dall’inizio e aver ospitato il volume nella collana filosofica da lui diretta: I Cento Talleri.

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dalla quarta di copertina

Le idee di vendetta e onore ricoprono un ruolo centrale nella scena del pensiero occidentale, condizionate come sono da una doppia e complicata narrazione: la storia delle passioni e quella delle leggi. È all’altezza del Settecento italiano tuttavia che il rilievo delle due idee corrisponde alla chiusura di un modello culturale segnato dal regime del sangue e dalla consuguente apertura alla modernità. Attraverso la decostruzione erudita di Scipione Maffei, scopriamo che il senso dell’onore cavalleresco non è avvinto all’onestà e che la vendetta è contraria alla ragione e alla legge. Sempre nel solco dell’eredità filosofica degli antichi, la ricomposizione morale rappresentata dalle riflessioni di Pietro Verri e di Cesare Beccaria si oppone alla contraddizione della tortura e della pena di morte – legittimate questa volta non dalla riparazione dei singoli ma da uno Stato desideroso di violenza pubblica. Le idee di vendetta e onore finiscono di assediare il tessuto morale dell’uomo moderno oppure si trasformano in un rinnovato processo, sul piano delle passioni e del diritto, che dovrà essere ulteriormente dipanato?

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Dalle prime pagine

Brevi note preliminari

La vendetta e l’onore sono due idee estremamente affini; non per nascita ma per il loro continuo depositarsi nella storia del pensiero e delle rappresentazioni che contraddistingue entrambe come temi prospettive e passioni irrinunciabili per la morale umana. Fin qui si potrebbe obiettare che qualunque idea morale, se opportunamente appaiata, può essere ascritta ad una relativa e salda mappatura, tuttavia nella storia di vendetta e onore si può riconoscere un preciso e cogente tessuto narrativo di tipo pratico che non conosce eguali. Vendetta e onore non sono solo idee di estrema suggestione ma assurgono a metafore delle relazioni e assumono esse stesse connotazioni cruciali, simboliche e necessarie, che hanno accompagnato la storia del pensiero fin dai suoi albori. Nella genesi della storia delle passioni, strettamente legata alla storia delle virtù, la vendetta in particolare si è riscontrata una delle più vitali, polimorfe e dissimulanti che la storia del pensiero occidentale abbia concepito. Una passione che conchiude una serie di implicazioni notevoli e che da funesta e sconsiderata pratica di sopraffazione si trasforma, nel suo stesso dispiegarsi, in impulso indispensabile al processo passionale. E seppure la storia della vendetta ami confondersi di plurime nascite se ne possono tracciare brevemente i prodromi. Nell’Etica Nicomachea la parola vendetta si traduce con timoría [Thesaurus] (in latino ultio o vindicta). Il termine è composto da timé (onore) e orao (guardare) [Frisk]; dunque timoría sarà non solo un sostantivo designante la vendetta ma anche l’atteggiamento di chi guarda l’onore, di chi ha cura dell’onore, principalmente del proprio, e difende l’offesa mossagli. Allora la vendetta sarà quella di colui che subisce l’offesa come oltraggio al proprio onore ed è pronto a ripararlo provando piacere e cessando la collera. Vendicarsi non persegue il piacere fine a se stesso ma genera piacere al posto del dolore. Per trovare riparo all’offesa il vendicativo deve mettere al mondo qualcosa che necessariamente prenda il posto del risentimento. Sembra che lo stato collerico non possa essere dissipato da sé, ecco la ragione per cui Aristotele ne evidenzia il carattere di scacco. Quella difficoltà riconosciuta per coloro che portano seco i tratti della collera e dell’ira è puramente sociale. Allo stesso modo, in silenzio, si medita la vendetta e i suoi effetti si riverberano su chi la subisce. È dunque un atteggiamento che nasce da un eccesso di passione ma che contemporaneamente acquieta l’animosità; c’è una spinta alla vendetta e parallelamente al suo contrario. La vendetta, prodotta dalla collera nelle persone rancorose, fa digerire la collera stessa. Ci pare dunque che la vendetta abiti l’uomo nelle proprie viscere, che sia qualcosa di ‘vivo’ e che provochi una reazione all’interno del processo passionale. Seppure la timoría sia stata messa a tema da Aristotele per primo, il vendicarsi esisteva già nel retroterra culturale greco come pratica e mentalità dell’intero mondo omerico; un’eredità grave che fa della vendetta un radicamento profondo all’interno della esistenza dell’uomo greco. L’Iliade e l’Odissea ci accostano a delle sontuose rappresentazioni della vendetta come conseguenza dell’ira, della menis, tessendo orizzonti impunturati di collera, rivendicazioni, onore perduto e ritrovato e fulgide riconquiste connotate da salde e impareggiabili narrazioni; questo perché l’ampia valenza semantica che l’idea di vendetta porta al proprio interno risente di diverse familiarità e può essere detta e rappresentata in molti modi. Convocare la vendetta comporta l’avvicinamento ad un arcipelago intero e frastagliato di segni, sintomi e idee ad essa affini e implicanti. Anche quando non è un guardare all’onore, la vendetta risulta essere un’idea che ha il suo senso profondo nel rinvio ad altro, in un essere fuori di sé, costantemente alla ricerca di un riconoscimento e di una conseguente applicazione. Quasi come se nella sua gestazione vi fosse un carattere fortemente compromettente di relazione. Siamo infatti dinanzi ad una passione di tipo relazionale e sebbene la vendetta, come suggerisce Seneca, possa essere covata e trattenuta nel solo pensiero senza mostrare attivamente il suo volto efferato, risulta fin troppo chiaro come la sua realizzazione determini uno statuto che si fonda sull’essere (almeno) due. Il vendicarsi è pur sempre un movimento, un rivolgersi all’alterità per pretenderne il possesso o l’annientamento. È nell’affermazione di sé, in capo alla vendetta, che si manifesta uno speciale livore in connessione all’idea di onore. Così, come la timoría è un guardare l’onore, ekdikein significa fuori dalla giustizia. L’araldo della giustizia dunque, la nemesi platonica, diviene in Aristotele indignazione. In qualche modo la vendetta aristotelica viene prodotta non solo da un eccesso di passione ma, e soprattutto, da un tentativo di ripristinare l’onore, il più grande dei beni esterni rintracciabile, nel suo senso autentico, nell’onestà e nella magnanimità. Solo con Cicerone, che esprime la sensibilità romana dell’onore, ci accorgiamo come il senso della vendetta sia nascosto; cioè a dire che la passione, intesa come trascinante e dolente, non sia contemplata come fondante. La vendetta è sempre vicina alla contesa, in particolare alla guerra e alle sue crudeltà. In questo senso dunque, Cicerone tratta del senso dell’onore inteso come facente parte del territorio morale dell’onesto. A questo buon modo di vedere, si riscontrano due sensi di onore, uno di carattere esterno e l’altro di carattere interno; honos e honestum comportandosi reciprocamente avranno una particolare valenza. In primis, la relazione di honos e honestum sarà di vitale interesse per quanto concerne l’onore inteso come riconoscimento sociale; tuttavia chi è degno di onore è primariamente onesto e chi è onesto è necessariamente degno di onore. Da qui la tradizione romana porta un enorme contributo, attraverso Cicerone per primo, al modo di intendere il concetto di onore e a mostrare il mutamento del comprendere. Seneca, nel De Ira, raccoglie nelle sue pagine una delle più alte e meticolose descrizioni che sono state date nell’antichità del processo di iracondia, in correlazione alla vendetta. Dalla timoría si passa con Seneca all’ultio, a quella piaga che, come l’ulcera, non si cicatrizza mai. Chi si vendica in nome dell’ira, come di una esiziale passione, non pratica la vendetta come qualcosa di calcolato, tutt’altro. Chi segue l’ultio vive con ardore e si lascia possedere dalla sete di lavare l’offesa ricevuta. È qui che Seneca esprime un più duro monito rispetto a tutti i suoi predecessori: «Quanto è meglio guarire l’ingiuria che vendicarla! La vendetta assorbe molto tempo e si espone a molte ingiurie, mentre ne lamenta una sola. La nostra ira dura più della nostra ferita». [De ira, III, 27, 1]. La vendetta dunque non sarà solo corrispettivo di ekdikein ma acquisterà un rinnovato significato partendo esattamente dalla timoría aristotelica e passando per l’ultio senecana. Un concetto di vendetta estremamente legato alla passione che lo agita e lo rinvigorisce. E mentre per Aristotele la vendetta aveva una valenza di farmaco contro l’indigestione della collera, figurando gli esiti del processo morale e fisiologico insieme, per Seneca l’ultio è qualcosa che resta aperta, febbricitante perché inerisce allo scelus. La rappresentazione che Seneca porta di quello stato ulceroso, oltre ad affondare le radici nell’orizzonte dei tragediografi greci, racconta di come le passioni di onore e vendetta connotino uno stare al mondo che, mutando, compone la cifra dell’agire umano. Non appariranno strane dunque le numerose riscritture teatrali delle opere Senecane in capo al Seicento, soprattutto francese. Ma il corredo passionale e morale agli albori della modernità era già fin troppo contaminato, non solo in Francia ma anche – e soprattutto – in Italia. Se infatti vendetta e onore convergono e si separano all’altezza delle passioni da un verso e delle leggi per l’altro, non si potrà tacere del doloroso nodo storico-filosofico che ne ha provocato il cortocircuito. La vendetta come un guardare all’onore diventa la pratica funesta del duello che sparse sangue per due secoli interi. Esattamente attraverso questo nodo, nel suo svolgimento e soprattutto nella sua risoluzione, assistiamo alla metamorfosi di un’intera mentalità. Onore e vendetta diventano lo specchio entro cui i gentiluomini dapprima osservano se stessi e giudicano il circostante. L’onore degli antichi, quello legato a doppio filo alla virtù dell’onestà e della moderazione, diviene – lungo il Cinquecento e il Seicento – un recipiente vuoto entro cui far suonare i valori ipocriti della cavalleria e delle buone maniere. In tal senso, la vendetta e la pratica del duello divengono due categorie importanti di indagine storico-filosofica. Concentrandosi principalmente intorno alla prima modernità italiana, ci si addentra nella descrizione del retroterra culturale sul quale poggia l’opera di Scipione Maffei. Nella metamorfosi di onore e vendetta, il veronese rappresenta il culmine di un’erudizione che, trasformatasi in grimaldello, scardina il senso vuoto e vacuo di onore e vendetta per fare ritorno agli Antichi. Il Settecento italiano rappresenta in questo modo il vigore e la ripresa delle tesi classiche in capo all’onore e alla vendetta per rendercele in tutto il loro inaudito e rinnovato valore dialettico. Così, la dura critica maffeiana che viene mossa al concetto di onore è intrinsecamente legata alla vendetta intesa come pratica ferina e barbara assunta dai cavalieri in maniera del tutto anarchica e contraria alla legge. Se Maffei traccia un quadro storico-critico di ciò che dal Cinquecento era stato dato per assodato intorno al concetto di onore e vendetta, è pur vero che la sua voce si aggiunge ad un processo filosofico e morale già in atto in Italia. Un processo che riguarda tutti i campi del sapere e che in Maffei è rischiarato dalla luce dell’erudizione. Nel solco del vivace e originale dibattito attorno a vendetta e onore, la metamorfosi culturale e sociale conosce il suo pieno svolgimento lungo l’intero Settecento italiano. La decostruzione delle tesi fallaci ascrivibile alle pratiche barbare puntella infatti un ritorno agli Antichi come la consapevole possibilità di riconoscersi mutati e, al contempo, carichi di un’eredità primaria. Alla liberazione dal senso fasullo di onore e vendetta rispondono, in tutta la detonante potenza, gli illuministi lombardi Pietro Verri e Cesare Beccaria. Accade che le stesse idee di onore e vendetta, citate copiosamente da Verri e dallo stesso Beccaria, diventino altro, ovvero la spinta, sul piano delle passioni e del diritto, attraverso cui leggere l’intero tessuto sociale sapendosi convertire in nuove declinazioni. Dei delitti e delle pene del Beccaria e Osservazioni sulla tortura del Verri si pongono come cesura forte e decisa rispetto ai precedenti modi d’intendere lo stare al mondo. All’altezza di timoría e timé non si assiste dunque ad un assorbimento acritico della morale degli Antichi; ci si rende conto piuttosto della assoluta novità circa gli esiti dell’onore e della vendetta. Quest’ultima in particolare diviene, nei propositi dell’Illuminismo lombardo, lo specchio della società settecentesca, contraddittoria, cangiante e polimorfa. Così, la vendetta intesa come passione che guarda all’onore mostra prepotentemente la metamorfosi di uno Stato che si arroga il diritto di infliggere morte e tortura ai danni dei propri cittadini. E proprio nei pressi della tortura e della morte come pena, intese entrambe come desiderio legalizzato di vendicarsi, interviene una distinzione interessante tra timoría e kólasis che, al suo interno, porta kolázo, ovvero mutilo, recido ma anche modero e infliggo (una pena). Nettamente dunque kólasis interviene per specificare come la punizione non sia un semplice castigo ma una correzione della persona o della cosa che desideriamo punire. Timoría invece procura soddisfazione, inteso come piacere e senso di sazietà. Cioè a dire che né la vendetta né la punizione sono da considerarsi riconducibili solo a se stesse ma si collocano, anche qui in capo alla tortura e alla morte come pena, in un processo di tipo relazionale. Mentre la punizione si manifesta solo rispetto a colui che la subisce, la vendetta si placa nel momento in cui si decide di metterla in atto, nel momento in cui cioè si stabilisce di essere sazi. Così da impulso ed eccesso di passione la vendetta di Stato nel tardo Settecento italiano diventa dispositivo esatto e arido di una società che, esaurite le proprie giustificazioni, viene messa in discussione dalla ricomposizione morale e politica della ragione già illuminata, dettato che Maffei, Verri e Beccaria hanno saputo riconsegnarci in tutta l’efficacia filosofica di cui sono stati capaci.

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