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– Sbrigati, sveglia il bambino!

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Io volevo un amore non questa conversione della pena

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Ecco il mio segreto testamento || C’è al mondo un sasso, lucido come il ginocchio ! duro come un’idea

 

Se l’innocenza non può essere reclamata, la responsabilità su di essa, come sguardo della cura in un mondo che cedevole si sposta, è forse il modo di saperci ancora figlie e figli. Di accorgerci che quella unione, dapprima sparpagliata e poi radunata in nidi di grazia, esiste e ci chiama – abissalmente. Ma c’è un ulteriore movimento che, risalendo il principio, recita ancora il proprio battesimo di sasso e fuoco [1]: Cos’è questo gettarsi sempre avanti | come un sassolino… | Siamo forse nati per questo abbandono? || Avanti, lascia il ramo || Sentirai centomila consigli risuonare tra le fronde | per di là, dove è entrata la luce | per di là, dove è entrata la luce | Il mondo dopotutto è tuo fratello, e resta vivo. Il mondo dunque è nostro fratello, è colmo non in misura ma in tonalità affettiva; ci è prossimo, il mondo, così come il coraggio di saper scegliere la luce e quello di mantenere alta l’attenzione.

Il nuovo lavoro poetico di Ida Travi si apre all’insegna del post. Un dopo che avanza e che è adesso, un modo di fermare con il polso teso di lancette ciò che è (s)fuggito dalle tasche della Storia. Insieme a ciò che riemerge, modificato e cogente in un unico coro. Una ricerca ininterrotta di dire l’essere in molti modi, di dirne la pluralità non neutra ma differente. Incontrovertibilmente salda.  La cesura di Tà. Poesia dello spiraglio e della neve (Moretti&Vitali 2011) sta soprattutto nei luoghi inesplorati dove la poeta porta con sé simboli e cifre che la contraddistinguono cercando nuove tracce, nuove foglie che sanno sollevarsi fieramente, come un preghiera :  Inna, mostrami il piede sicuro || C’è un fiore | sotto il piede sicuro || getta la croce|| la zolla è calda | l’erba cresce come una santa.

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I luoghi sono quelli del distacco, di quello strappo che si avverte nell’onomatopea del titolo. Ma anche un rinnovato ritorno, come una soglia che non resta più in penombra ma si fa porta a cui bussare rumorosamente per dire che sì, siamo qui e pretendiamo una possibilità di felicità. Tutto era a posto, tutto era perfetto | poi è venuto l’uomo con la falce | e s’è preso tutte le nostre fragole || Allora sono scesa dalla sedia regina | alzando le braccia al cielo || Sono scesa dalla sedia regina | portando le mani al petto || Tutto era perfetto, cento colombe | sono volate in cielo, come un ventaglio | in cielo le fragole antiche dormono | nel fazzoletto nuovo. Lo spiraglio è dunque la possibilità dopo il taglio, l’intermittenza del vedersi, quella apertura sorgiva come una parola che ha già scontato la purezza e cresce nonostante la neve. Nonostante le mani al petto. Quel cuore festante infatti sa inerpicarsi per le scale della narrazione come ciò che resta dopo l’offerta. Il blu sotto l’occhio | dice che c’è un paradiso | e si chiama occhiaia (…) | Tu non sei stata chiamata al sacrificio. È un rifiuto a cogliere il peso che non appartiene solo a noi ma che, lento, viene finalmente spartito. Anche qui il taglio, la divisione che è più un dirimere cosciente tra la lingua e la bocca, senza colpa. Perché il nostro fardello è impastato d’amore e Ida Travi non lo ha mai taciuto. L’erba ci chiede scusa | ma noi non perdoniamo, vero? || Legheremo i capelli alle radici, avremo | il bene eterno, non questa colpa, vero? || Noi abbiamo l’amore, Olin || È una ruota in discesa, non lo fermi | è come il fazzoletto quando cade | noi saremo felici in terra | non staremo per sempre in questo enigma. Il vagito lascia il posto al pianto ché (…) fuori c’è il signor boia | ci sono gli invasori della culla. È in terra che si deve rispondere, che si deve reagire. È all’angolo degli ultimi che abita il rimedio dell’urgenza, di dirsi unite e uniti verso la minaccia dell’inautentica ritualità che allontana. (…) Piange come farebbe un animale penitente | come uno che sta nella vergogna | Cosa credi che sia quel pianto | cosa te ne fai di quel lamento… || È solo una goccia al triangolo dell’occhio | del nostro occhio, intendo | adesso cosa c’entra Dio? Non può esistere finzione, non si possono nominare le cose sperando che vengano svuotate di significato. Non ci si può appellare alle scorciatoie. Tà è oggi. Tà sono le cose stesse, quelle accadute per sbaglio e le altre che ci chiamano a non poterle più ignorare. Ritorna in te, tògliti dalle rose || Superbe nella loro natura | svettano nel colore | come irriducibili bandiere || Questa è la verità, Inna | non puoi discutere con le rose | hanno sempre ragione loro.

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Come fossero tessere di un mosaico che ora si scorge per intero, segnandosi in contatto con l’ordito poetico profondissimo, il bambino si declina nei nomi mondiali che accompagnano i versi. Così incrociamo Inna, Olin, Katrìn, Attè, Usov e Antòn. Sono loro che sono arrivate e arrivati alla parola di Travi per farsi largo tra i frantumi di ciò che è avanzato e di ciò a cui ci siamo sbadatamente abituate/i. Loro si fanno testimonianza corporea della dimenticanza. E gridano. I loro nomi contengono la voce di chi non ha mai avuto ascolto, di chi non domanda perdono. È Travi che ci avverte di ciò, sia nella premessa poetica al libro che alla fine della silloge, a dichiarare che la separazione non corrisponde una volta per tutte ad una mancanza di beatitudine terrena: Chi sono loro? || Post-studenti, ex-lavoratori, esseri comuni || E perché sono qui? || Vivono con noi || Dici sempre – con noi | ma che vuol dire noi | noi chi? || Guarda com’è alta la neve adesso … | ci supera.

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Quell’essere è nelle tue mani | non puoi andartene in giro così | senza di lui sei salva || Poi venne quel grido da sopra || Solleva il grembiule! | Fammi vedere la lettera | La mano che stringe la rosa | apre la porta alle spine | sul foglio c’è scritto | – SCAPPA! – || Dentro ci stava un nocciolo | e tu, e tu … Il rischio del male non può interrompere l’accadere. Il nocciolo della questione è più importante e a nasconderlo dietro la schiena, come fa Inna davanti al verso di Travi, ci si ferisce la mano. E sebbene si rimanga vive non si fugge. Come a dire che si r-esiste altrove detonando il circostante di fiori che esplodono di premura. E sui fiori la poeta si sofferma lungamente in più di una pagina; il candore non esige redenzione ma è un esempio di ordine. Dite ai petali ch’è tutta colpa loro, tutta colpa | della loro tenerezza. Dovevano pur dire che pena | sbocciare in aprile e finire di colpo | sotto lo zoccolo d’un cavallo… || ma se solo tendete l’orecchio, se solo tendete | l’orecchio e ascoltate, sentite anche voi quel respiro | quel fiato? || La neve è caduta sulla neve, l’erba è cresciuta | sulle nostre mani. Inseparati stanno in quel biancore che ora è neve e giglio. Quando ci si allontana dalla casa però le cose si spaccano in due. Viene detto a Olin, proprio a lui che rappresenta la povera cecità del mancato governo, della ingordigia sregolata per mantenere l’anima tutta intera. È per questo che il cielo si confonde | è per questo che l’albero mi guarda e tace. Quanto tempo dovrò aspettare, si chiede la poeta, quanto tempo prima che tu mi riconosca.

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Ecco l’altare, e adesso cosa vuoi? l’agnello? || Non ti basta bruciare i vestiti? || Nessuno alza gli occhi, tutti se ne stanno | a testa bassa, come castigati | come bloccati da tremiti nervosi || Come cinque dita sul tronco | come trenta mani sul ramo | come la falce in casa | lasciata dietro la porta || là dove chiama il silenzio dei corvi | là dove regna l’eterna fame dei nidi. L’albero è una mappa di segni, di rami dileggiati di carezze. L’albero che si declina in quercia che consegna il pane e simbolo muto della terra, si rompe anch’esso; se ne intuisce lo spasmo nonostante il tocco lieve. I corvi non lasciano spazio, non consentono di respirare. Hanno celebrato l’inganno dei vinti facendolo passare per una sbadataggine. Camminerai col fazzoletto sulla bocca | parlerò per te, ma io non c’entro niente || Il padrone è quello che fa il nodo sulla nuca || Ti dà l’etere quando devi svenire || E chi lo vede più il tramonto?

L’abitudine è una modalità di seconda scelta ma parimenti inevitabile se si osservano i segni e le scosse a cui non si è potuto reagire. Eppure c’è un fuoco a dissipare congetture, c’è una mosca che se prima era sulla guancia del bambino ora è lì a dirci che il pericolo è scampato in nome della noncuranza e dello scollamento tra l’essere e il dover essere: Poi ti abitui. Vedi le cose passare | e ti abitui. La mosca ti passa davanti al naso | la vedi sparire, e ti abitui || Vedi crescere il ramo, lo vedi spogliarsi | ti abitui. Vedi scendere il buio, ti abitui || come una candela, ti abitui, sono cose | che non puoi rompere || Quando cade il pettine ti abitui | è caduto il pettine, tutto qui | è caduto per la testa troppo alta | tra le stelle || Le stelle passano, ti abitui, il camicino | passa davanti agli occhi, come una volta | come una volta la terra ruota | il carro è triste, triste.

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Non entri nell’acqua, Attè? || Corre veloce il fiume, corre veloce | come il nostro desiderio … || Desiderio? || Sì, Desiderio! Ecco il suo nome, Attè | così lo chiameremo! || E non dirmi che non ti piace | il bambino è immortale, lo sai. Il desiderio è ciò che salva realmente, è quel che muove il nuovo sogno e l’agire. È il taglio aperto, la fonte perpetua del nutrimento in capo al soggetto femminile tanto caro alla poetica di Ida Travi: Sono scesa nel solco fiorito | vedo benissimo l’oscurità del cielo | ma non mi interessa, non mi interessa || Rimango qui, nel solco dell’aratro | Io non aspiro alla sua corona.

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Io sono all’altezza dei fiori. E cucio quel che mi corrisponde.

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Il mondo era caduto dietro l’occhio, ecco | perché non si vedeva più!

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Io sono a conoscenza d’un mistero | so l’ordine preciso d’un mistero || Svaniranno i fiori dappertutto | ma io non svanirò. Lo giuro!


[Alessandra Pigliaru]

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[Tutti i corsivi corrispondono ai versi di Ida Travi tratti da Tà. Poesia dello spiraglio e della neve, Moretti&Vitali 2011]

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[1] Non c’è scelta: è un battesimo di sasso: il modo in cui si nasce è qualcosa di assegnato per sempre, come un dono o un danno sul quale poggerà il nostro compito. Quale compito?

È un battesimo di sasso, una pietra da stringere nel pugno. Cosa resta da fare?

Star lì tutto il tempo col sasso in mano?

[da Ida Travi, Il gioco pesante di tutta la vita, in Chiara Zamboni (a cura di) Il cuore sacro della lingua, Il poligrafo, Padova 2006].

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