Chiedo perdono, ma a vent’anni con le scarpe da tennis nuove e l’arroganza di chi sa che in quel punto esatto non passerà mai più, ho sognato anch’io un figlio maschio. Nel sogno era scuro di capelli e lo davo alla luce faticosamente, che a vent’anni i drammi sono tutti desiderabili, il dolore è un belletto vitale che regala fascino, e le lacrime lo spalmano sulle guance..
Nella mia testa quel parto scenografico è avvenuto mille volte, e la sofferenza era una forma di eleganza, la sfumatura più elevata di una maternità verace.
Non c’era un uomo a far da padre, non ne serve uno per partorire con dolore.
Nel mondo in frantumi dei miei vent’anni, l’unico padre pronunciabile era il Padre Nostro, pregato con la fiducia incosciente di chi ancora non si è sentito chiedere niente da sacrificare.
Nel mondo in frantumi dei miei vent’anni, io credevo di essere nata con una sola cosa intera per le mani: l’istinto materno, la vocazione all’essere ventre, come le brocche d’olio in magazzino.
Nel mondo in frantumi dei miei vent’anni, non dovevo cercare alcun perché all’esistere, mi sarebbe bastato trovare un per chi. Sposa di qualcuno, madre di chiunque, io non sapevo cosa fosse la vocazione ad essere me.
Ma quando i vent’anni passano, un figlio smette di essere materiale da sogno, e diventa un atto sovversivo. Dopo i trent’anni siamo tutti dei sopravvissuti, e i figli dei sopravvissuti sono gravidanze a rischio anche quando non li fai, anche quando li pensi e basta, perché non c’è pensiero che possa ancora dirsi innocente. Quando si comprende che orizzonte è solo un altro nome per chiamare il limite, ogni possibilità diventa rischiosa tensione all’utopia.
A quello stadio, se ancora figlio deve essere , non può più essere maschio.
Sarà femmina, e non avrà occhi facili.
Vorrà sapere.
Seduta sulle mie ginocchia, mi chiederà chi è e chi siamo, e le mie risposte non uccideranno le sue domande. Perché non le venga la malattia dei figli unici, credersi la sola misura di se stessi, partorirò per lei i ricordi del futuro e le profezie del passato, in un tempo senza scarti, dove poter già essere quel che saremo. Mia figlia diventerà ricordo prima di essere progetto, e accoglierà il presente come fosse un seme ricevuto.
Non si addormenterà con i cartoni animati, no. Io le canterò una ninna nanna per stare sveglia, una ninna nanna per non chiudere gli occhi, perché abbiamo già dormito tanto e troppo, mentre altri plasmavano i nostri sogni in incubi di realtà.
[tratto da Altre madri di Michela Murgia]
Maria Antonietta ha detto:
Parole che lasciano di stucco! Parole che scavano dentro e che ti abbandonano subito dopo, incredula e scossa nello stesso tempo. Credo sia difficilissimo riuscire a “partorire” parole come quelle appena lette. Emerge emotivamente una domanda: perché?
gliocchidiblimunda ha detto:
Cara Maria Antonietta,
bisognerebbe leggere tutto lo straordinario testo di Michela Murgia per rendersi conto della portata di un testo del genere, me ne renso conto. L’accoglienza della lingua materna di Michela, come il dolore di una donna che si sente responsabile di chi partorisce … spiegherà la storia delle donne alla figlia (perchè dopo i 30 anni non può che essere femmina) e le dirà chi siamo state, nel bene e nel male. Non è un testo che negativizza il ruolo di madre (se è questo a cui si riferisce il tuo stupore) ma tutt’altro: è un inno d’amore, finalmente e di sana responsabilità realistica. Se vuoi leggere il testo per intero (questo è l’incipit) lo trovi pubblicato per Einaudi dal titolo “Questo terribile intricato mondo” (in un’antologia di racconti scritta da autori vari); altrimenti, in alternativa, puoi ascoltarne la lettura proprio dalla voce di Michela qui http://www.youtube.com/watch?v=XfE1z_SqeNk.
Ciao e grazie 🙂
bloggercreativa ha detto:
Grazie di aver postato questo brano. Mi ci sono ritrovata davvero in pieno. E ho una bambina. E sarà figlia unica. E non voglio che anche lei a vent’anni si pensi come un essere monodimensionale, ma che esplori le sue possibilità. Mariantonietta (un’altra!)